mercoledì 28 novembre 2012

saper meravigliare

Il terremoto

Deh, qual possente man con forze ignote
il terreno a crollar sí spesso riede?
Non è chiuso vapor, come altri crede,
4né sognato tridente il suol percuote.

Certo, la terra si risente e scuote
perché del peccator l’aggrava il piede,
e i nostri corpi impazïente chiede
8per riempir le sue spelonche vote.

È linguaggio del ciel che ne riprende
il turbo, il tuono, il fulmine, il baleno;
11or parla anco la terra in note orrende,

perché l’uom, ch’esser vuol tutto terreno,
né del cielo il parlar straniero intende,
14il parlar della terra intenda almeno.

Ciro di Pers è uno dei più esperti e sinceri fra i poeti del Barocco. Nato nel 1599 salla famiglia dei signori di Pers, passò gran parte della sua vita a San Daniele del Friuli come cavaliere di Malta.  I temi del poeta sono vari e disparati: il canzoniere raccoglie sonetti di carattere amoroso e encomiastico, descrizioni di oggetti e di fenomeni naturali , ma anche canzoni da alti toni moraleggianti. Non è raro che la riflessione di Ciro si soffermi spesso sulla tragedia umana e sulla pesantezza della vita, nonchè sulla miseria e la vanità del vivere. Altre rime invece sono argute e immaginose, con alcuni caratteri popolareschi. 
Non è specificato a quale terremoto faccia riferimento il poeta, certo è che durante tutto il Seicento si verificarono una serie di terremoti in tutta Italia e in particolare in Calabria; il sonetto non si pone come una descrizione del fenomeno naturale in quanto piuttosto ne ricerca le cause già dai primi due versi. Il terremoto è una sorte di punizione divina per l'uomo incapace di volgersi alle cose celesti e concentrato solamente su quelle terrene; c'è però anche una polemica riguardo il modo di vivere in quanto gli uomoni sembrano non ascoltare neppure la terra. 

Al sonno

 O sonno, tu ben sei fra i doni eletti
dal ciel concesso ai miseri mortali;
tu l’agitato sen placido assali
4e tregua apporti ai combattuti affetti.

Tu d’un soave oblio spargendo i petti,
raddolcisci i martir, sospendi i mali;
tu dái posa e ristoro ai sensi frali,
8tu le tenebre accorci e l’alba affretti.

Tu della bella Pasitea consorte,
tu figliolo d’Astrea, per te paro
11van fortuna servile e regia sorte.

Ma ciò che mi ti rende assai piú caro
è ch’all’orror dell’aborrita morte
14io col tuo mezzo ad avvezzarmi imparo.

Questo sonetto è dedicato al sonno ed è particolarmente interessante perchè riprende un topos letterario, ovvero il rapporto di somiglianza tra sonno e morte. Infatti il sonno non solo concede il riposo dagli affanni, dai mali e dalle preoccupazioni ma è anche anticipazione della morte. Ciro di Pers riprende e quasi riscrive un sonetto di Michelangelo (102) ma anche un'ottava dell'Orlando Furioso (XXXIII, 64). Questo sonetto sarà sicuramente presente al Leopardi, che era un conoscitore fine di Ciro, nella composizione dell'Operetta morale  "Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie". 


 Il cacciatore di archibugio

Solo e notturno uccellator tonante
chiama l’usato can, la fune accende;
cinto di grave cuoio il piede errante,
4laberinti palustri e cerca e fende.

Immoto al fin su riva ascoso attende
tra soffi d’aquilon lo stuol volante,
ch’alla valle s’invola e al mar si rende,
8mentr’a l’aurora il dí bacia le piante.

Vibra Giove alle fère unico un telo,
ma questi a lo scoppiar d’un colpo solo
11mille alati cader fa al flutto, al gelo.

Che piú? s’ei può, stringendo un dito solo,
trar fulmini dall’acque, augei dal cielo,
14far il piombo volar, piombar il volo!

Di carattere totalmente diverso rispetto ai precedienti sonetti, questo componimento è la descrizione di un tipo: il cacciatore con l'archibugio. La poesia barocca spesso indugia sulla descrizione delle cose semplici o di quelle curiose che fino a quel momento non erano entrate a far parte del discorso poetico. Ciro di Pers quindi descrive qui un cacciatore che durante la notte caccia nel bosco con il suo archibugio. La prima strofa è una descrizione delle azioni del cacciatore. All'immobilità della seconda quartina, in cui è descritto l'appostamento del cacciatore, si contrappone la prima terziona le cui parole non sono prive di un'intento onomatopeico, soprattutto al verso 10. Il sonetto si conclude con la costatazione della rapidità del gesto del cacciatore, paragonato al fulmine.



Per certi aspetti anche l'intento degli Annes de pellegrinage di Liszt può essere definito barocco; il musicista infatti durante il viaggio in Svizzera e in Italia compone questi pezzi che descrivono luoghi visitati, oggetti visti, situazioni vissute. D'altra parte la scrittura pianistica è fortemente evocativa e spesso eccessivamente ricca, anche se spesso sono raggiunti momenti di alta riflessività. Certamente questo modo di comporre è anche anticipatore dell'impressionismo musicale e artistico.



giovedì 22 novembre 2012

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
4 per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
8 di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
11 con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
14 sì come i’ credo che saremmo noi.

E' questo uno dei più noti sonetti danteschi, escluso dalle rime della Vita Nova, il cui dedicatario è l'amico primo Guido Cavalcanti, secondo quella diffusa abitaudine trecentesca delle tenzoni poetiche ( il sonetto "S'io fossi quelli che d'amor fu degno" è la risposta del Cavalcanti e ha lo stesso schema metrico ABBA, CBBC, CDE, EDC). Dante immagina che un incantesimo possa trasportarlo insieme a Guido e a Lapo Gianni, altro poeta stilnovista, e, come specificherà poi, insieme alle loro amate, su di un vascello dove poter discorrere liberamente riguardo la natura di amore. La forma è quella del plazer provenzale, un componimento in cui sono elencate una serie di situazioni piacevoli in cui si viene a trovare il poeta. D'altra parte sempre di ispirazione francese è la situazione vagheggiata: infatti il vascello e il mago richiamano alla mente Merlino e il ciclo di romanzi arturiani, conosciuti da Dante se non altro attraverso riprese in opere duecentesche come il Mare Amoroso (vv 212-216). 
Tre sono le donne di cui si fa menzione: monna Vanna che compare altri sonetti anche della vita nuova, e  monna Lagia, la donna di Lapo, citata oltre che in "Amore e monna Lagia" dal Cavalcanti, la terza non è da intendere come Beatrice, quanto piuttosto come una delle donne schermo, infatti viene identificata col numero 30 fra le sessanta donne più belle di Firenze, a cui Dante aveva dedicato un sirventese, mentre Beatrice occupa il nono posto. Dante quindi propone agli amici di ragionar d'amore, subito l'espressione richiama alla mente la grande canzone "Amor che nella mente mi ragiona", in cui si affronta la natura di amore e il ruolo nella vita del poeta, che in questo sonetto appare evidente dalla conclusione, infatti amore è ciò che rende i poeti e le donne contenti, felici per sempre.  Dal sonetto emerge la differente posizione di Dante rispetto a quella dell'amico Guido riguardo amore, considerato dal primo come salvifico, (come di manifesterà chiaramente nella Divina Commedia, in particolare nei canti centrali del Paradiso) dal secondo come doloroso e svilente ma necessario (si pensi al sonetto cavalcantiano "L'anima mia vilment'è sbigotita", in cui domina il binomio amore-morte)

E' questo uno degli studi più noti e amati di Chopin tanto che ne sono state fatte innumerevoli trascrizioni, la più famosa quella della Malibran. Lo stesso compositore affermava di aver creato una delle sue melodie più belle e lo amava particolarmente. Di per sè non richiede particolari abilità tecniche, il problema che affronta infatti e quello del tocco e della simultaneità di due compiti diversi affidati alla mano destra. 
La melodia, di una dolcezza e soavità uniche, non può non farci pensare all'amicizia e all'amore, trasportandoci nello stesso tempo in luoghi fantastici.






venerdì 9 novembre 2012

Tuttor ch’eo dirò gioi, gioiva cosa,
intenderete che di voi favello,
che gioia sete di beltá gioiosa
e gioia di piacer gioioso e bello:
  
   e gioia in cui gioioso avenir posa,
gioi d’adornezze e gioi di cor asnello;
gioia in cui viso è gioi tant’amorosa
ched è gioiosa gioi mirare in ello.
   
  Gioi di volere e gioi di pensamento
e gioi di dire e gioi di far gioioso
e gioi d’onni gioioso movimento.
    
 Per ch’eo, gioiosa gioi, sí disioso
di voi mi trovo, che mai gioi non sento
se ’n vostra gioi il meo cor non riposo.


Questo sonetto, il numero trentuno del canzoniere amoroso di Guittone d'Arezzo, è tutto incentrato sulla replicatio della parola "gioi", usata dal poeta in relazione alla donna amata al posto del nome che non può menzionato altrimenti si incorrerebbe nelle maldicenze della gente. La parola gioi si ripete in tutti i versi spesso più volte e si costituisce quindi come dimostrazione evidente della fedeltà d'amore; sono due i piani su cui va letta questa parola: Gioi è il nome della donna ma nello stesso tempo la condizione del poeta nel rapporto con la donna.
Le due quartine sono una celebrazione della bellezza dell'amata, del suo aspetto in tutto perfetto; la prima terzina invece celebra i modi dell'animo, infatti la bellezza non è solo esteriore ma necessariamente anche gentilezza d'animo e cortesia.
La terzina conclusiva, che si apre come la quartina iniziale con al centro l'io del poeta e la sua condizione nei confronti della donna, è una sentenza, che forse è una ripresa agostiniana con valore dissacrante.
Questo sonetto appartiene alla prima fase poetica di Guittone, in cui è presente il tema amoroso cortese di stretta derivazione siciliana. Nella seconda produzione invece, segnata da una vera e propria mutatio animi, dovuta all'ingresso nell'ordine dei frati della Gloriosa Vergine Maria, vi è un capovolgimento rispetto alle tematiche cortesi e una ferma e dura condanna della vita amorosa.




 

La fuga numero 9 dal primo libro del Clavicembalo ben temperato di J.S. Bach ha un procedimento analogo al sonetto guittoniano: il tema è costituito da due sole note, quasi fossero un bisillabo, come la parola gioi. Per replicazione di queste note nasce l'intera composizione, caratterizzata da spensieratezza e allegria, e da un andamento sempre più cadenzato e veloce, all'interno del quale possiamo trovare ripetuto continuamente il semplice tema. Le battute finali costituiscono una chiusura importante e ben definita quasi una sorte di sentenza.